Erano trascorsi quarantacinque anni da quando Caleb e Giosuè rapportarono a Mosè che la terra di Canaan era buona, unici fra i dodici che furono inviati a esplorare il paese perché gli altri lo screditarono. Quarantacinque anni di lotte, di amarezze, di sofferenze; quarantacinque anni nei quali moltissime volte l'incredulità, i mormorii e il peccato del popolo lo avevano afflitto. Uno dietro l'altro i membri della vecchia generazione morivano e venivano seppelliti nel deserto. Subentrava la nuova generazione, e, in mezzo ad essa, Caleb, «il vecchio», inteso non come sinonimo di decadenza, ma come esempio della incrollabile fiducia in Dio, restava in vita. Egli restava forte, saldo, impavido perché lo sostenevano la forza e la fede in Dio. Ora poteva dire serenamente: «Le mie forze son le stesse d'allora». Non c'è presunzione nelle sue parole, ma con la cosciente consapevolezza che è stato l'Eterno a mantenerlo in vita e dargli le forze (v. 10). La «vecchiaia» di Caleb in realtà era costituita soltanto dal numero degli anni vissuti, me nell'altro. Egli era ancora vigoroso di quella eterna gioventù del cuore che il Signore concede a coloro che hanno imparato il segreto divino: «Non per forza, ma per potenza, ma è per lo Spirito mio, dice l'Eterno». (1) Come Iddio premiò Caleb per la sua fedeltà così Cristo ha promesso di premiare i Suoi che gli rimarranno fedeli. «Sii fedele fino alla morte, e io ti darò la corona della vita». (2) 1) Zaccaria 4:6 2) Apocalisse 2:10
Data: 15/11/2002 Visite: 4448 | |
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