Salmo 102
Ascolta il prego mio,
caro Signore, e a te pervenga al cielo
il grido che t'invio.
La faccia non celar d'un fosco velo:
mentre d'affanno anhelo,
a me l'orecchio inchina.
La tua mercè divina,
qualor ti fo l'acerbe doglie conte,
mi die risposte gratiose, e pronte.
Ratto si dileguaro
i giorni miei, come fumo, e vapore:
l'ossa mie si seccaro,
qual'arsiccio tizzon, privo d'humore.
fummi percosso 'l core;
e, come herbaggio passo,
fu d'ogni vigor casso.
Mi fer l'angosce amare, ond'io m'accoro,
d'ogni cibo obliar l'almo ristoro.
Pe' sospiri infocati,
son gli ossi, del natio succo rasciutti,
a la pelle attaccati.
Qual gufo, o pellican, in ermi brutti.
Piango, ne' fieri lutti.
Le luci il dolce sonno
giammai gustar non ponno.
Al passer solitario sopra 'l tetto
nel gemer' i' rassembro ansio nel petto.
Oltraggi, strazi, e scorni,
i mie' nemici, contra me rabbiosi,
mi fanno tutti i giorni.
Di maladir' i modi dispettosi,
da' mie' casi dogliosi,
prendon, con furieinsane:
perchè 'n vece di pane,
la sozza polve, e cenere ho mangiata,
e co' pianti la mia coppa adacquata.
Perchè, di sdegno acceso,
tu m'hai, Signor, a basso traboccato,
ed in terra disteso:
appresso havermi in glorioso stato
innanzi sollevato.
Qual'ombra vespertina,
la vita mia dichina.
Ed i' mi struggo, spasimato, in guisa
de l'herba, ch'arde il sol, falce ha recisa.
Ma tu, Signor, dimori
immutabile, e immoto, in ogni etade:
i memorandi honori
son sempiterni in tua Maestade.
Sorgi, ed habbi pietade
de la cara Sione,
ch'è matura stagione
che 'n lei spieghi le tue gratie divine,
homai, ch'è giunto l'assegnato fine.
Perch'a' suoi sparsi sassi
hanno i tuo' servi l'affettion rivolta:
piangendo che la lassi
negletta in polve e cenere sepolta.
Le genti, in schiera folta,
a te, Signor, verranno,
e ti riveriranno.
Anche del mondo tutti i prenzi, e regi,
a te daran d'eterna gloria i pregi.
Quando 'l Signor la mano
havrà messa a rifar Sion diserta:
e del regno sovrano
al mondo svelerà la gloria aperta.
Qualor sie, che connetta
gli occhi a la prece ardente
de l'afflitta sua gente
e, racquetato, più non habbia a schivo
il suo pregar di zelo acceso, e vivo.
A la gente futura
cio sie scritto per fida ricordanza:
onde l'età ventura
ti renderà di laudi l'onoranza.
Che da la santa stanza
del cielo tuo sublime,
le parti basse ed ime,
mirar ti piacque, con i lumi desti,
e de' fedeli tuoi cura prendesti.
Perch' ad udir ti pieghi
de' carcerati i gridi dolorosi:
e que' liberi, e sleghi,
che dura morte aspettan' angosciosi:
onde cantin, gioiosi,
in Sion le tue lodi:
ed, in festivi modi,
sienti in Salem sacrati i pregi degni,
quando a servir verranti e genti, e regni.
Ei m'atterrò tra via,
e le forze fiaccò, sì che repente
scorciò la vita mia.
onde porsi al mio Dio prece dolente,
deh, non far me languente
d'aura vital diviso,
a mezzo corso anciso.
Tu sol' eterno Dio, sol' anche puoti,
per tua gratia, eternar' i tuo' devoti.
Tu de la terra il pondo
ne l'imo centro hai posto, e stabilito:
del cielo, a tondo a tondo,
con le mani formasti il circuito.
Pur fie tosto finito
l'esser de' tuoi lavori.
Ma tu, Signor, dimori,
mentre, invecchiati, come un vestimento,
quelli trapasseran in un momento.
Lor forma muterai,
come si cangia logorata veste.
Ma tu sempre sarai
stabile, e uguale: n'unque fie che reste
il viver tuo celeste.
Anche de' tuoi famigli
havran la stanza i figli
del cospetto divin' al vivo sole,
v' farà ferma senza fin lor prole.
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